I reperti artistici nei centri del territorio del monte Amiata sono numerosi
ed alcuni di eccelsa qualità. La fortunata circostanza rappresentata dal fatto
geo-politico di essere ricaduto l'intero territorio amiatino in un'area in cui si sono
accavallate e succedute le civiltà
etrusca e romana, e successivamente nel
medioevo aver rappresentato un importante crocevia tra la
repubblica di
Siena e i possedimenti pontifici, nonchè l'essere attraversato da nord a sud dalla
via Francigena, va registrata come una somma di motivazioni congeniali
allo svolgimento di
attività artistiche, che si sono concretizzate in presenze di autentiche opere
d'arte, molte delle quali conservate nelle chiese, nei monasteri o nei castelli locali, altre
purtroppo emigrate ad arricchire i musei e le pinacoteche di Firenze, Siena e
Roma.
La primaria influenza dell'arte senese ha lasciato testimonianze cospicue,
commissionate a suo tempo da poteri ecclesiastici, ma anche laici, presenti ed
operanti in varie epoche nei centri amiatini. Altre sono state volute e prodotte da casate
esterne all'Amiata, ma che mantenevano nel tempo saldi legami con quel
territorio.
Archeologia
Scavi archeologici eseguiti, specie in epoche recenti sull'Amiata o nelle
vallate sottostanti, hanno fatto emergere interessanti elementi e spunti di studio e di
ricerca, per risalire agli usi e alla vita degli insediamenti preromani ed
etruschi della zona. In realtà si ricava, dallo scarso numero dei ritrovamenti,
l'indicazione che nella protostoria, così come successivamente nelle civiltà
etrusca e romana, la presenza di agglomerati di una certa consistenza sarebbe
da escludere, perlomeno nella fascia altitudinale al di sopra dei 600 metri. I
rinvenimenti interessano in modo sparso e frammentario le più basse
vallate
del Paglia, del Formone e dell'Orcia, ove erano possibili attività umane
collegate all'agricoltura.
Le parti più elevate dell'Amiata venivano visitate sporadicamentate, forse per sfruttare in modo occasionale certi prodotti del
suolo, come i coloranti (cinabro e ocre), da comunità stanziate nelle aree non proprio limitrofe al territorio amiatino. Ma
soprattutto il legname delle selve costituiva una materia prima altamente
appetibile per i primi abitatori dei territori a valle dell'Amiata, e successivamente da parte degli
etruschi e dei romani, stanziati nelle civitas.
I primi segnali di una presenza dell'uomo
nei versanti dell'Amiata, identificati in cuspidi
di freccia o in attrezzi realizzati in corna di cervo, sono stati reperiti nella località
Campogrande di Casteldelpiano, mentre casuale ma di grande importanza
archeologica è stato il rinvenimento di un attrezzo in ferro a Campigliola, nel
comune di Castiglion d'Orcia. In una grotta detta del "Tesoro", in
località Catarcione, nel comune di Abbadia san Salvatore, sarebbero stati
scoperti i graffiti di un soggetto antropomorfo, appellato dai ricercatori come "l'arciere dell'Amiata", ma che rimane tutt'oggi di incerta
datazione.
Al tempo degli Etruschi l'Amiata si poneva come un massiccio situato in un'
area di frontiera fra potentati appartenenti alle città di Chiusi, Vetulonia,
Roselle, Volsinii, e Vulci. In quei tempi lontani (siamo nel X-IIX secolo
a. C.), si è oramai pressochè accertata l'esistenza di una grande struttura di
culto, testimoniata da rinvenimenti archeologici consistenti in un'antefissa
(fregio ornamentale della gronda di un grandioso edificio) e in altre terrecotte
architettoniche, anch'esse di consistenti dimensioni, nella località di Poggio alle Bandite,
nei pressi di
Seggiano.
Anche nei territori contermini (Montalcino, Montelaterone, Montegiovi,
Castiglion d'Orcia, Campiglia d'Orcia ed altre zone a nord della montagna)
rinvenimenti attinenti al culto, fanno pensare ad una sorta di raggiera di "sacralità",
al cui centro era l'imponente santuario, collocato come si
è detto a Seggiano, che forse ha costituito una specie di primario luogo sacro
a servizio della spiritualità e dei culti etruschi. In questo contesto, merita
una doverosa segnalazione l'esistenza di un'epigrafe, inglobata nel muro delle
chiesa di San Clemente a Montelaterone, con iscrizione dedicata a Giove Ottimo
Massimo.
L'epoca della romanizzazione delle città etrusche, databile al II-I secolo
a. C., ha lasciato maggiori evidenze archeologiche nell'area amiatina.
Necropoli, o tombe isolate, sono state rinvenute nell'area del Potentino, sempre
vicino a Seggiano, urne cinerarie a Montesalario, nel comune di Casteldelpiano.
In prossimità di Castiglion d'Orcia e di Campiglia i ritrovamenti divengono
più frequenti con una serie di urne e lapidi contenenti iscrizioni pertinenti a
inumazioni di famiglie gentilizie. Un deposito votivo, particolarmente cospicuo,
per numero e qualità di oggetti, è stato reperito a Radicofani, nel versante
che guarda il Paglia: anche qui possiamo ipotizzare l'esistenza di un luogo di
culto per la presenza, fra gli oggetti rinvenuti, di statuette di Lari, poste
forse a protezione di un itinerario che cominciava ad essere sempre più
praticato, che diverrà poi la via Romea o Francigena.
Nel 1992 nei pressi di Abbadia San Salvatore, ricerche universitarie hanno
evidenziato la presenza di numerosi materiali lapidei, laterizi ed oggetti
ceramici, che indicano una rete insediativa, posta a valle dell'attuale
abitato di Abbadia, tesa ad un modesto sviluppo agricolo, favorito dall'utilizzo
del bosco, ma soprattutto supportato dall'arrivo di una classe di famiglie
terriere (la nobilitas delle campagne) rivitalizzate dagli indirizzi della
politica semischiavistica romana e dalle residue aristocrazie etrusche.
Materiali attinenti a tombe alla cappuccina sono stati rinvenuti in discreta
quantità poco sopra Bagni S. Filippo, e sono riferibili anch'essi alla prima
romanizzazione dell'Etruria.
Gli Etruschi e i
Romani chiamavano Mons Tuniatus la montagna amiatina, con ciò mettendo in
evidenza una chiara designazione sacrale: Tinia, o Tunia, era infatti la massima
divinità etrusca, ed era assai consueta un'attribuzione devozionale alle sommità
delle montagne, che dovevano apparire come ipotetica residenza degli dei oggetto
del culto.
(Fonti: Cambi, Bianchi
Bandinelli, Mazzolai, Ciacci, Pistoi, Kurze, Francovich, G. Valle, Negroni,
Citter, Nucciotti)
Monumenti, architetture e arti figurative
(Abbadia, Piancastagnaio, Castellazzara, Selvena)
Si è accennato alla massiccia presenza delle opere pittoriche appartenenti
al filone dei grandi e meno grandi artisti del trecento senese, una
presenza che è riscontrabile pressoché in ogni tempio, convento
dell'Amiata, senza escludere anche edifici civili, che spesso si sono
decorosamente ornati di opere commissionate agli artisti che da Siena
irradiavano la loro influenza artistica nel territorio circostante. I più
grandi nomi del Trecento senese sono certamente stati individuati come autori di
capolavori dell'arte figurativa riscontrabile sull'Amiata: Simone Martini,
Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Luca di Tommè. Anche per i secoli successivi, con
particolare riferimento al Quattrocento e al Seicento, ritroviamo sull'Amiata
dipinti ed opere di eccelso valore del Vecchietta, nativo peraltro di Castiglion
d'Orcia, Francesco Vanni, Ventura Salimbeni, fino ad arrivare al ciclo di una
famiglia autoctona amiatina, i Nasini, che hanno lasciato nei luoghi di culto
dei vari centri amiatini, numerose tavole e affreschi di una approssimativa intonazione barocca e
manieristica, ma altamente apprezzabile pur nei limiti del modo di far pittura
in quell'epoca.
Il sopravvivere della cultura medioevale nelle arti figurative è
testimoniato dalle numerose immagini ed effigi, riproducenti sacre
rappresentazioni, oggi visibili nelle chiesette, templi o monasteri disattivati,
allocati nei borghi amiatini o in eremi e grotte sparse nei boschi o in piccoli
agglomerati rurali a segnare l'importanza della pratica religiosa anche in
microcomunità.
La storia di Abbadia San Salvatore è collegata indissolubilmente a quella
del Monastero, prima benedettino poi cistercense. Sul pendio della montagna che
guarda a nord-est, si è andato sviluppando il borgo, intorno al complesso del
tempio che costituisce la parte principale dell'abbazia. E' il monumento storico
e architettonico più rilevante dell'Amiata, con una cripta che si presenta
restaurata con concezioni assai rispondenti alla realtà storica e stilistica.
La cripta si fa risalire all'VIII secolo e costituisce la struttura
dell'originale chiesa voluta dai longobardi, anche se le colonne. i capitelli e
le volte rispondono più alla tipicità romanica che non al gotico longobardo.
Siamo di fronte comunque ad una struttura che viene oggi rappresentata come la
parte iniziale di un potente centro monastico, destinato ad incidere nello
svolgersi degli avvenimenti del medioevo, come avamposto del potere temporale
del papato, pur nella alterne vicende che culmineranno poi nella soppressione
leopoldina del 1783. La chiesa abbaziale è costituita da due campanili di cui
quello di destra incompiuto, caratteristici e congeniali alle forme
architettoniche del westwerk di provenienza germanica, applicato ad una
struttura romanica di natura religiosa. La parte interna ad una navata si
eleva al di sopra della cripta, cui viene dedicata una posizione privilegiata,
assunta dopo i restauri. Tutto il complesso è costituito in materiale
trachitico,
La descrizione
delle opere d'arte conservate nella chiesa parte da
un crocifisso ligneo intagliato, probabilmente risalente ad un'epoca ancora
bizantineggiante (XII secolo) con un Cristo "triumphans" secondo la
catalogazione delle rappresentazioni cristiche, che si affermerà nella storia
dell'arte. Ma il patrimonio artistico più abbondante e vistoso dell'intero
complesso concerne le opere di Francesco Nasini, il pittore amiatino di
Casteldelpiano, che unitamente al fratello e ai figli, ha lasciato testimonianze
artistiche a piene mani, non solo nel territorio amiatino, ma anche nella stessa
Siena, ove ebbe ad operare specialmente il figlio Giuseppe Nicola.
Si deve a Francesco Nasini, la cui vocazione artistica è vagamente collocabile tra il
barocco e il manierismo, la decorazione degli archi della navata, così come
alla sua vena artistica appartengono quasi tutti gli affreschi
rappresentanti eventi sacri riferibili alla Vergine, a vari santi, a Gesù,
ma soprattutto sono da segnalare le allegorie della "Caccia di Rachis"
e "il Miracolo dell'apparizione del Salvatore" allo stesso re
longobardo, temi insoliti che si rifanno alla fondazione leggendaria
dell'Abbazia. Probabilmente qualche affresco minore, ma non più di due,
potrebbero essere attribuiti alla scuola fiorentina del seicento, che faceva
capo a Lorenzo Lippi.
All'interno del centro storico di Abbadia è la chiesa di Santa Croce, di
antichissima origine, successiva solo alla chiesa abbaziale, anche se
attualmente risulta fatta oggetto di rifacimenti pesantemente innovativi.
Conserva tuttavia un fonte battesimale, datato 1509, di semplice fattura della
scuola senese del '500, nonchè oggetti di culto, ex-voto, arredi d'altare che attestano
l'esercizio costante dei riti cristiani fin dal tardo medioevo. Opere cospicue,
ed alcune qualitativamente valide, riconducibili alla dinastia dei Nasini,
sono presenti nel tempietto della Madonna dei Remedi, nella parte sud di
Abbadia. Temi strettamente attinenti alla rappresentazione e alla vita di santi,
che stanno a dimostrare la varietà artistica cui attinsero i Nasini, dai modi
umbro-senesi ai richiami all'estro dei pittori veneti, il che sta a dimostrare
la difficile collocazione artistica dell'importante famiglia artistica amiatina,
che non hanno certo brillato per qualità, ma che hanno segnato un
periodo dell'arte figurativa toscana difficilmente inquadrabile, e
destinato certamente ad essere studiato più attentamente.
Il Castello Aldobrandesco di Piancastagnaio deve probabilmente la sua
edificazione alla casata longobarda degli Aldobrandeschi, che cercarono di
organizzare un sistema organizzato di roccaforti, per meglio difendere i propri
vasti possedimenti che andavano dall'Amiata alla Maremma. Fu inizialmente
baluardo nei confronti dei Monaci di San Salvatore, che ben presto, in virtù
del loro potere temporale che esercitavano attraverso un gioco complesso di
alleanze, se ne impossesarono. Successivamente ritornò agli Aldobrandeschi del
ramo di Sovana e da questi affidato ai Visconti di Campiglia. Fu conteso poi
aspramente dagli orvietani, organizzati in libero comune, poi dagli Orsini di
Pitigliano, per assoggettarsi definitivamente (e forse anche democraticamente,
cioè per volontà popolare degli abitanti) alla Repubblica di Siena nel 1415.
Non molto distante dal castello, si incontra il Convento di San
Bartolommeo, di origine francescana, con una loggiata esterna che precede una
facciata a capanna. Nella retrofacciata affreschi di scuola senese, raffiguranti
la "strage degli innocenti", la cui attribuzione è tuttora motivo di
incertezza, anche per una conservazione alquanto degradata. Pale di non eccelso
valore sui vari altari interni, mentre nel chiostro vi sono opere di
Francesco Nasini, di cui rimane riconoscibile un "San Francesco che riceve
le stimmate".
Lo stesso Nasini presenta poi una specie di rassegna di lavori nel santuario
della Madonna di San Pietro, nel pianoro boscato a castagni, sulla strada verso
Santa Fiora.. Meritano una doverosa segnalazione, scendendo per i vicoli angusti
del vecchio paese, edifici che hanno segnano una vita attiva di qualche secolo fa,
come il palazzo pretorio, con richiami architettonici chiaramente umbri, il
palazzo del podestà e la torre dell'Orologio, limitrofa alla chiesa di S.
Maria Assunta, inglobata nel nucleo abitativo del vecchio borgo, cui si accede
mediante una suggestiva scalinata. Il borgo di Piancastagnaio ha ospitato fin
dal '600 una comunità ebraica, associata nei riti e nel culto a quella di
Pitigliano.
Sulla sinistra del borgo, il tempio di Santa Maria delle Grazie che
presenta una serie di affreschi, ovviamente a tema sacro, la maggior
parte dei quali attribuiti a Nanni di Pietro, detto anche maestro di Orvieto,
operante nel quattrocento. Una trattazione a se stante meriterebbe il Palazzo
Bourbon del Monte, un grandioso palazzo rinascimentale, situato nella parte sud
del borgo, attualmente in stato di pericoloso degrado, eretto nei primi anni del
seicento da Giovan Battista Bourbon del Monte, feudatario del marchesato di
Piancastagnaio su attribuzione di Ferdinando dei Medici. Il complesso fu
progettato, con una imponente concezione, dall'architetto perugino Valentino
Martelli: come si vede gli influssi umbri su questa parte dell'Amiata, sono
presenti, sia per la vicinanza geografica, sia per la dominazione che vi
esercitò la comunità di Orvieto. Nel parco, dovizioso un tempo, che circondava
il palazzo, i resti di una fontana in peperino denominata "piatto delle
streghe".
Purtroppo questo edificio dall'austero aspetto scenografico, che si
presenta come un palazzo di rappresentanza del potere di una pretenziosa
comunità, ma anche come il palazzo da cui si dirige e si governa la produzione
di una vasta proprietà agricola-forestale (come in effetti è stato
nell'ottocento), é oggi frammentato in una moltitudine di piccoli proprietari,
di difficile gestione e amministrazione, in uno stato di degrado, per il quale
non si presentano al momento ipotesi di conservazione e tantomeno di restauro.
Castellazzara, dal toponimo curioso, che fa risalire le sorti del castello al
gioco della "zara", un gioco a dadi, cui si dedicava in quel
tempo qualche giovane rampollo della casata degli Aldobrandeschi, faceva parte
della contea di Santa Fiora, condividendone i destini. Il patrimonio artistico,
che vanta il paese, si limita alle tele seicentesche, raffiguranti Madonne e
Santi, la prima ospitata nella parrocchiale di San Nicola, la seconda nella
vicina chiesetta dell'oratorio della Madonna del Rosario,
approssimativamente accreditate alla scuola senese. Ma il territorio di
Castellazzara, nella parte a valle, al confine di tre province (Grosseto, Siena
e Viterbo), presenta uno straordinario edificio, la Sforzesca, che all'epoca della sua
costruzione, nel tardo cinquecento, doveva attestare la potenza degli Sforza,
succeduti agli Aldobrandeschi nella contea di Santa Fiora. Una villa maestosa,
con un parco altrettanto maestoso, che fu teatro nel 1580 di un breve soggiorno
del Papa Gregorio XIII, decorata con grande raffinatezza, che rimane
testimonianza architettonica della prassi manieristica dell'epoca. Purtroppo
restauri azzardati, che ne hanno alterato le linee, e il decorso inesorabile del
tempo, rendono oggi di difficile lettura i particolari monumentali e le forme
inconsuete di una struttura pensata per una collocazione insolita, in
un territorio di campagna, al di fuori cioè dei grandi centri del potere.
A poca distanza dall'abitato di Selvena, nel comune di Castellazzara,
residuano le rovine di una rocca-castello denominata nelle filze degli archivi
storici come "Rocca Silvana". Si trova attestata fin dall'833 ed ha
costituito un baluardo difensivo di grandissimo valore strategico per gli
Aldobrandeschi di Santa Fiora, che intesero salvaguardare il loro
vastissimo territorio in quella parte di confine proprio utilizzando tale
castello. Finito il potere aldobrandesco, la rocca Silvana divenne dominio della
Contea di Pitigliano e poi degli Orsini per accordi intervenuti con la
Repubblica senese, che aveva il controllo pressochè assoluto di tutta la zona
amiatina.
A scorrere:1) L'Ermeta, un
tempietto del primo medioevo, prossimo ad Abbadia - 2) La Madonna di Simone
Martini, proveniente da Castiglion d'Orcia - 3) Un ritratto di Francesco Nasini,
pittore in Casteldelpiano - 4) Ceramica robbiana in Santa Fiora - 5) Il S.
Pietro di Ambrogio Lorenzetti a Roccalbegna.
Monumenti, architetture e arti
figurative (Santa Fiora, Arcidosso, Casteldelpiano, Seggiano, Castiglion d'Orcia,
Roccalbegna,Semproniano)
Il territorio comunale di Santa Fiora confina ad est con quello di
Piancastagnaio e ad ovest con quello di Arcidosso. Comprende l'agglomerato di
Santa Fiora, con un nucleo storico di notevole interesse, e le borgate di Bagnolo e di Bagnore, oggi eleganti centri di attrattiva
turistica. Inizialmente Santa Fiora fu possedimento dei Monaci di san Salvatore,
ma per poco tempo. Prima del 1000 infatti si insediarono gli Aldobrandeschi, che
ne fecero il centro indiscusso del loro vastissimo feudo, che nel 1274 fu diviso
nei due rami, entrambi della casata aldobrandesca, che presero il nome,
così come sono storicamente attestati di "ramo di Sovana" e
"ramo di Santa Fiora". A quest'ultimo competeva tutta la zona amiatina.
Per effetto combinato di matrimoni, agli Aldobrandeschi di Santa Fiora,
successero gli Sforza e successivamente gli Sforza-Cesarini, che rimasero
feudatari anche quando subentrò la dominazione medicea.
Del vecchio maniero aldobrandesco rimane la austera torre dell'Orologio, e
limitrofo ad essa il Palazzo Sforza-Cesarini, oggi sede municipale, dalla veste
tardo-rinascimentale con una galleria che collega la piazza Garibaldi con le
strade di penetrazione al paese. Lungo la via Carolina, la strada che si
addentra nella parte medievale del paese, si affaccia il fronte della Pieve
delle Sante Flora e Lucilla, un fronte a capanna con rosone, dall'aspetto
sobrio, che collima con la scenografia delle più importanti chiese dell'Amiata.
Nell'interno alcune bifore in elegante forma gotica sono a corredo di opere
d'arte di inestimabile valore, le ceramiche robbiane risalenti al periodo che va
dal 1445 al 1510 circa, attribuibili, senza grandi remore, per forme
stilistiche e per analisi dei materiali utilizzati, ad Andrea della
Robbia, maestro ceramista del rinascimento fiorentino. I temi ovviamente sono
tutti sacri. Si segnala solo l'opera più importante che è la pala d'altare che
raffigura "l'Assunzione della Vergine" circondata da un numeroso
stuolo di angeli e santi., ma la serie delle terrecotte invetriate, cioè delle
ceramiche robbiane, nelle pareti e nel pulpito della chiesa, è veramente
cospicua. Inoltre nella sagrestia e nella canonica dello stesso tempi sono
conservati arredi sacri (tele, reliquiario delle sante Flora e Lucilla) del
quattrocento senese.
Nella parte più bassa, verso la rupe che incontra la vallata, la chiesa di Sant'Agostino, con alcuni lavori in legno intagliato, di eccelso valore
artistico, tale da farne attribuire l'esecuzione a Jacopo della Quercia, o
almeno alla sua scuola, attualmente dislocati nel museo diocesano di Pitigliano.
Ancora lavori artistici di scuola senese, fra cui un crocifisso ligneo e una
tavola quattrocentesca.
Altri templi, che completano il sistema di culto e di attiva devozione
della Santa Fiora dei tempi passati, sono la Madonna del Suffragio, lungo la via
Carolina, con stucchi settecenteschi, ove sono custoditi i tre crocifissi a
tronco, che sono trasportati solennemente in processione ogni 3 maggio,
secondo un'antichissima tradizione; la Madonna delle Nevi (ove ritroviamo
Francesco Nasini), collocata vicino alla Peschiera, e il Convento delle
Clarisse, suore di clausura, nel cui coro è rinvenibile un crocifisso ligneo
del quattrocento senese.
In prossimità della frazione Selva, è il Convento francescano della
Santissima Trinità, un complesso di grande suggestione, in posizione isolata in
mezzo ad un bosco di castagni e querce, di origine incerta, ma restaurato
nel XVIII secolo, con un recupero abbastanza fortunato di pale cinquecentesche,
fra cui la tela più importante, opera di Girolamo di Benvenuto,
raffigurante una "Assunzione della Vergine con santi". Nei paraggi del
chiostro è conservata in una bacheca una leggendaria "testa di drago"
ad evocare un episodio di caccia del conte Guido Sforza, ovviamente attestata
dal reperto votivo, ma non dalle cronache del tempo.
Due strutture architettoniche, una storica e civile e l'altra legata al
culto, sono presenti nel territorio comunale di Arcidosso. Il Castello con torre
merlata, che si da costruito negli annali storici, addirittura prima del 1000,
oggi restaurato, ha costituito un centro di potere prima con gli Aldobrandeschi,
la cui sede principale rimaneva comunque a Santa Fiora, poi con la Repubblica di
Siena, e successivamente con il Granducato di Toscana, che allocavano nel
castello di Arcidosso il Capitano del Popolo e i vari consoli o podestà
che amministravano una vasta zona dell'Amiata occidentale. L'altra
struttura, di natura sacra, è la Pieve di Lamulas un santuario ricordato come
possesso degli abati di San Salvatore, distrutta dalle armate senesi nel 1264 e
ricostruita subito dopo. Anche qui restauri non sempre azzeccati, hanno
determinato un avvicendarsi di stili, dal romanico esterno, all'arte sobria
interna con qualche pretesa classicheggiante nei pilastri, in cui motivi
zoomorfi presenti nei capitelli recuperati, stanno forse a testimoniare
un'origine longobarda del complesso. Affreschi oramai perduti nell'abside, anche
se nell'altare rimane una Madonna con Bambino in legno, opera quattrocentesca di
buona scuola senese. Interessanti anche le altre chiese di Arcidosso, a partire
dal santuario della Madonna Incoronata, ove è situata una importante pala di
Ventura
Salimbeni, noto pittore senese del XVI secolo, i cui influssi barocchi sono
assai evidenti, nonchè una pala d'altare raffigurante una Madonna con Bambino,
di scuola senese tendente allo stile di Taddeo di Bartolo.
Nella parte nord del borgo arcidossino va ricordata la chiesa di
San Leonardo, anch'essa originario possedimento dell'abbazia di San Salvatore,
ove Francesco Vanni ha lasciato uno dei suoi capolavori, una "Decollazione di San
Giovanni Battista", considerata una delle opere più significative dell'arte
devozionale senese del seicento. Nella stessa chiesa sono presenti varie pale
d'altare risalenti ad autori riferibili al cinquecento senese, precedenti cioè
all'avvento dei Nasini, che stranamente ad Arcidosso si ritrovano solo nella
periferica chiesa del convento dei Cappuccini e nel santuario della Madonna
Incoronata (solo una copia della raffaellesca Madonna della Seggiola, di
Giuseppe Nicola Nasini). Nel corso principale, in prossimità del borgo
vecchio, una pregevole fontana in ghisa, a guisa di tempietto sta ad evidenziare
una storia singolare legata ad una appropriazione compensativa, cioè la
cessione dell'acqua da Arcidosso alla città di Grosseto e al centro di
Follonica in cambio di un'opera dei maestri ferrai, attivi nell'ottocento in
Follonica.
Sulla strada per Casteldelpiano, limitrofo alla località di san Lorenzo, è
il Convento dei Cappuccini, la cui chiesa racchiude una tela datata 1593 di
Francesco Vanni,
che raffigura Madonna e Santi ed è posta nell'altare maggiore. Da notare in
questa tela un recupero della policromia originaria che sorprende per la sua
vivacità e che attesta il sapiente uso del colore da parte di un autore che ha
lasciato segnali prestigiosi di talento nella città di Siena e nei suoi
dintorni.
A Montelaterone, la chiesa parrocchiale di san Clemente conserva nell'altare
di sinistra una pregevole tela di scuola senese, risalente al seicento. a
sinistra dell'altare maggiore è presente un Tabernacolo in marmo, assegnabile
ai maestri senesi del secolo XV. Nella chiesa della Misericordia affreschi
riferibili a Francesco Nasini.
Casteldelpiano presenta una fisionomia urbanistica di tutto rispetto con una
amena distribuzione degli spazi e con sequenze costruttive storicamente ordinate. Il pianoro che
da il nome al paese è attraversato dal corso Nasini, e sviluppa verso sud e
sud-ovest una espansione edilizia equilibrata. A monte del corso Nasini è il
centro storico.
Il centro di Casteldelpiano riveste i caratteri monumentali conferiti da due
chiese, di epoche diverse, in cui l'intervento costruttivo si è spalmato nel
tempo, soprattutto per la chiesa dei santi Niccolò e Lucia, detta anche chiesa
dell'Opera. Anche la chiesa della Madonna delle Grazie è un edificio
monumentale, dalla facciata ottocentesca con richiami barocchi, a completamento
di una piazza di elegante aspetto scenografico.
La chiesa dell'Opera presenta al
suo interno una dotazione artistica cospicua, in cui accanto ad opere figurative
di Domenico Manetti (senese, attivo nella metà del seicento), e di Alessandro
Casolani ("decollazione di san Giovanni Battista"), la dinastia dei
Nasini, originaria del luogo, ha espresso una produzione di tele e affreschi
ricca in qualità e quantità. Fra tutte va segnalata una "natività di
Maria" di Giuseppe Nicola Nasini, che è forse una delle migliori opere di
questo pittore, che - a sua volta - fra i Nasini era quello più raffinato e
più aperto agli ambienti stilistici dell'epoca.
La famiglia dei Nasini ebbe a praticare la pittura sia su
strutture murarie (affreschi), sia su tele, negli anni che vanno dalla metà del
seicento alla metà del settecento, esercitando tale attività artistica con una
produzione molto abbondante e distribuita in varie zone: prima di tutto nei centri dell'Amiata,
ma anche in Siena, Firenze e Roma, accettando comunque committenze laddove esse
venivano richieste. Il capostipite dei pittori nasiniani fu Francesco, seguito dal
fratello Annibale e dai figli Antonio e Giuseppe Nicola, cui viene riconosciuta dalla
critica la maggiore qualità artistica. Infine i figli di Giuseppe Nicola
Nasini, Giacomo e Apollonio. Una valutazione complessiva dell'opera dei Nasini
va riferita soprattutto a Giuseppe Nicola, che riassume in termini artistici, il
meglio di quanto rappresentato dagli altri, a partire da Francesco Nasini. La
loro arte fu soprattutto una ricerca e una riproposizione degli echi stilistici
delle più importanti correnti pittoriche dell'epoca, per cui non è difficile
individuare nei lavori di Giuseppe Nicola influssi barocchi, ma anche
caravaggeschi, specie nelle espressioni luministiche. In molte tele si rinviene
la presenza di toni estetici e manieristici dei pittori veneti ed emiliani, che
lo stesso pittore ebbe spesso a frequentare, ma è pur sempre dominante un'arte
domestica e devozionale che tende ad attenuare gli eccessi classicistici
dell'epoca, con risultati spesso positivi. Francesco Nasini è invece
maggiormente versato alla ricerca del superamento della fastosità baroccesca,
introducendo nelle sue opere componenti intimistiche quasi primitive, tali da
far pensare al manierismo napoletano riscontrabile negli ex-voto o comunque
nella minore arte devozionale dell'epoca. Quanto alla tecnica del disegno,
agli effetti di luce, alla proprietà cromatica, solo Giuseppe Nicola Nasini
merita di essere considerato un maestro del pennello, anche se non sempre si è
espresso su alti livelli produttivi, specie per la sovrabbondanza di opere
provenienti dalla sua bottega in Siena. Lo stesso Giuseppe Nicola Nasini va poi
ricordato per le tele dei
Novissimi,
un ciclo pittorico comprendente quattro raffigurazioni (la morte, il giudizio,
il paradiso, l'inferno), che rimasero esposte per oltre un secolo in un salone di Palazzo Pitti a Firenze, a
partire dal 1690 per volontà di Cosimo III dei Medici, riscuotendo nei
contemporanei un successo scenografico ed emotivo di ampie proporzioni.
Di fronte alla chiesa dell'Opera, che conserva, come abbiamo visto una
rassegna di lavori nasiniani, è il tempio della madonna delle Grazie, il cui
altare maggiore, che trasuda una scenografia totalmente barocca, è tuttavia
riscattato artisticamente da una "Madonna con Bambino e santi", che è
certamente da accreditare a Sano di Pietro, attivo in Siena nel quattrocento,
o quantomeno alla sua scuola. Anche in questo tempio sono presenti, e non
poteva essere diversamente, tele dei Nasini.
Nella chiesa parrocchiale di Montegiovi, un ameno borgo situato in un'altura
occidentale dell'Amiata, si rinvengono opere accreditabili a Francesco Nasini e
ai suoi discendenti. Più interessanti sotto l'aspetto artistico i reperti
presenti a Montenero d'Orcia, altra frazione di Casteldelpiano. Una Porta con
piombatoio testimonia l'esistenza di fortificazioni ricostruibili solo in
maniera virtuale. La chiesa di Santa Lucia, piccola e sobria, lascia
intravedere dipinti di qualità apprezzabile che pur non riferibili ad autori
sicuramente individuati, rivelano influssi dell'arte senese di varie epoche, fra
cui un Cristo in croce attribuito con una certa approssimazione, ma con
motivazioni assai valide, ad Ambrogio Lorenzetti.
A Monticello
Amiata, nella chiesa parrocchiale, è rinvenibile una "Madonna in
trono" di Bartolomeo Neroni, detto il Riccio, pittore senese del
cinquecento, seguace del Sodoma. Nella cappella di val di Prata ritroviamo
puntualmente un'opera dei Nasini, stavolta di Giuseppe Nicola, raffigurante una
serie di figure sacre.
Ma una sequenza di opere d'arte che merita grande attenzione è rinvenibile a
Seggiano, un borgo amiatino nato come casale del Monastero di San Salvatore,
poi divenuto possesso della Repubblica Senese prima ancora delle conquiste
territoriali amiatine di Guidoriccio da
Fogliano. Vale qui ricordare una serie
di affreschi, ovviamente a tema sacro, di Girolamo di Domenico, nel piccolo
oratorio di San Rocco, appena all'esterno dell'abitato. Girolamo di Domenico,
pittore illustre del tardo quattrocento senese, nel produrre tali affreschi ha
risentito degli influssi umbri, realizzando una pregevole sintesi artistica fra
due scuole di alta valenza decorativa. Il "Maestro di Panzano",
anch'esso quattrocentista senese, evidenzia un polittico a tema sacro, nel
Palazzo comunale. Ancora un grande dell'arte figurativa del Trecento senese,
identificato dapprima come "maestro d'Ovile" e più recentemente in
Bartolomeo Bulgarini, è l'autore di un polittico con una "Vergine in trono
con Bambino e santi", ubicato nella chiesa parrocchiale di San Bartolomeo.
Nella parte alta del borgo, la chiesa del Corpus Domini conserva dipinti di
scuola senese e una serie di reliquie provenienti dal Convento del Colombaio, in
cui ebbe ad svolgere la sua opera mistica e meditativa San Bernardino da Siena.
Sulla strada per Casteldelpiano troviamo un edificio di culto dall'elegante
veste architettonica, risalente al tardo cinquecento, il Santuario della Madonna
della Carità, con una facciata pretenziosa e con decorazioni di qualità. Sulla
strada per Castiglione d'Orcia, sulla sinistra deviazioni stradali conducono al
Castello del Potentino, possedimento dei Monaci di San Salvatore, ben
conservato nel tempo e attualmente restaurato. Non lontano i ruderi del Convento
del Colombaio, che fu probabilmente uno dei primi esempi di monachesimo, fondato
in Toscana da San Francesco nel 1221, ove nel quattrocento svolse la sua
attività mistica e contemplativa per lungo tempo San Bernardino degli
Albizzeschi, tanto che il convento è citato spesso nelle cronache
post-medioevali come il Convento di San Bernardino da Siena. Sopra Seggiano, fra
i boschi e i silenzi della montagna, è la frazione di Pescina, nella cui chiesa
parrocchiale è una preziosa tavola raffigurante una "Vergine con
Bambino", accreditata al pennello di Luca di Tommè, fra gli artisti più
significativi del Trecento senese.
Castiglione d'Orcia, un borgo fortificato medioevale, di cui residuano resti
di mura di cinta con porte e due torri, è posto in un livello intermedio fra
Amiata e val d'Orcia, con panorami vallivi di grande impatto emotivo, quei
panorami che sono il simbolo del paesaggio toscano, con distese erbose, crete,
filari di cipressi e casali o ville di campagna. La parte più antica del borgo
è individuabile nella piazza del Vecchietta, sulla quale si affacciano il
Municipio, un pozzo del '600 ed altri edifici d'epoca. Il Vecchietta, cioè
Lorenzo di Pietro, noto e valente pittore attivo nel quattrocento senese, è
nativo di questo borgo, e per tale motivo la piazza principale del paese è a
lui intitolata. Ma un rilievo del tutto particolare assume la chiesa dei Santi
Stefano e Degna, che presenta una dotazione artistica del tutto insolita per
qualità e per notorietà degli autori: tre opere di capitale rilevanza della
pittura senese: una "Madonna con bambino e angeli" dello stesso
Vecchietta, un'altra "Madonna con Bambino" di Pietro Lorenzetti e
ancora una "Madonna" attribuita recentemente dalla critica più
autorevole a Simone Martini. Purtroppo tali opere, per essere state ormai
considerate di altissimo valore artistico, non sono più nella loro
collocazione originaria. Per motivi di sicurezza e di maggiore idonea
conservazione, dopo essere state dislocate per qualche anno presso la
Soprintendenza di Siena e Grosseto, oggi risultano assegnate al vicino Museo di
Montalcino.
Rimane invece assegnato alla chiesa parrocchiale dei santi Pietro e Paolo, a
Roccalbegna, un polittico di Ambrogio Lorenzetti, datato all'incirca al 1340,
raffigurante una "Vergine con Bambino e i santi Pietro e Paolo", di
elevatissimo pregio artistico, tanto da essere qualificato come uno dei
capolavori dell'illustre autore. Merita inoltre un doveroso cenno l'oratorio
retrostante alla chiesa, che ospita una piccola raccolta di dipinti a tema
sacro, fra cui una Croce di Luca di Tommè, insigne autore del trecento senese,
ed una rassegna di tele dei soliti Nasini.
A Semproniano, templi secenteschi nel centro storico e nelle vicinanze del
paese, con pregevoli acquasantiere. Posto su uno sperone roccioso, a guardia
delle gole dell'Albegna, il piccolo ma integro borgo di Rocchette di Fazio, che
conserva antiche costruzioni, quali il Palazzo Pretorio e l'Ospedale di San
Bartolommeo, risalente al 1330. In prossimità dei resti della rocca
aldobrandesca, si presenta un vasto e articolato panorama che dalle selvagge rupi
dell'Albegna spazia alle estreme alture meridionali del monte Amiata, in un
aspro reticolato di rocce e vegetazione.
(Fonte principale di riferimento: Bruno Santi, "Il Monte Amiata,
itinerario storico-artistico", Lions Club Amiata, 1987)