Il cinabro

Per circa un secolo (1870- 1970) è stata presente, nel territorio dell’Amiata, un' intensa attività di estrazione industriale di cinabro, il solfuro da cui veniva ricavato il mercurio. Da quarant’anni circa, per le motivazioni che più avanti saranno delineate, lo sfruttamento minerario del cinabro è stato completamente abbandonato. A ricordare quelle vicende, nello stesso tempo produttive, economiche e sociali, rimangono oggi due musei evocativi, situati uno ad Abbadia San Salvatore e l’altro a Santa Fiora.

Il monte Amiata è un rilievo di natura vulcanica, in cui l’attività lavica, circa 300.000 anni fa ha sovrapposto rocce eruttive e colate di magma su una base argillosa legata all’evoluzione del corrugamento della catena appenninica risalente all’epoca paleozoica. Il cinabro è un minerale di formazione idrotermale, da cui si ricava il mercurio mediante processi di riscaldamento e condensazione.

Una pietra di cinabro, assai ricca di minerale. Nel gergo dei minatori veniva   denominata "mammellone" (museo minerario di Abbadia)

Il museo minerario di Abbadia San Salvatore, ricavato nell'immobile della Torre dell'Orologio, entro il sito della ex-miniera.

Un excursus storico sul cinabro deve partire necessariamente dalla conoscenza e dall’uso che se ne faceva nelle civiltà etrusca e romana, cioè dagli antichi abitatori del territorio amiatino o dei luoghi ad esso contermini. Il cinabro era ricercato sostanzialmente come colorante primario, un rosso vermiglio utilizzato nella tinteggiatura dei muri, dei tessuti e delle terrecotte. E' ormai accertato che anche il prezioso "rosso pompeiano" traeva origine dal raro cinabro raccolto nell'area vesuviana, un territorio vulcanico geologicamente simile a quello amiatino.

Una sicura conoscenza del cinabro è quindi accreditabile sia agli etruschi che ai romani. In queste civiltà il cinabro veniva utilizzato, come detto, essenzialmente come colorante, e forse non ancora indicato come minerale base per ottenere il mercurio. L’escavazione delle pietre cinabrifere avveniva in modo primordiale utilizzando, cosa oramai accertata dai ritrovamenti archeologici, curiose e singolari punte di silice e corna di cervo reperite in alcune miniere.

Difficile invece sostenere che il derivato del cinabro, il mercurio, fosse allora usato ancorchè forse conosciuto. Rimane infatti una grande incertezza di come gli oggetti in oro, reperiti in numero considerevole specie nei siti etruschi, e oggi visibili in alcuni musei archeologici, fossero stati trattati partendo da una materia prima, appunto l’oro, in una forma così depurata che era possibile ottenere solo con processi di amalgama, in cui il mercurio è elemento indispensabile. Del resto alcuni autori danno per certo l’utilizzo del mercurio nella Cina e nell’India in tempi antichissimi e significativa è la presenza di gocce di mercurio nelle tombe egizie risalenti al 1500 avanti Cristo.

A completamento dell'esposizione geo-mineraria del territorio amiatino, è qui opportuno ricordare la presenza di altre estrazioni da cave o miniere, di importanza minore, quali la farina fossile a Casteldelpiano e le terre gialle a Bagnoli di Arcidosso.

Il mercurio

Il mercurio, unico metallo in forma liquida e dalla fluidità sinuosa, fu altamente considerato nel medioevo nell’ambito dell’alchimia, una disciplina teorica e applicata assai bizzarra, ma che ebbe un incredibile sviluppo fino al rinascimento, quando cioè venne sostituita e superata dalla chimica, una scienza che poggiava i suoi principi e le sue applicazioni su rigorose basi scientifiche. Ma il mercurio, da elemento misterioso ed affascinante nelle scienze alchimistiche, non perse la sua importanza e oltre ad impieghi e utilizzi occasionali e artigianali, divenne un metallo nobile per le sue proprietà uniche e specifiche come elemento propedeutico nell’estrazione dei metalli pregiati quali l’oro e l’argento, ai quali si lega per amalgama.

Una bombola di mercurio. Pesa 34,5 kg. (museo minerario di Abbadia)

Nella seconda metà del XVI secolo, pur in assenza di notizie documentali, alcuni giacimenti di cinabro (Almaden in Spagna, Idria nell’attuale Slovenia, montagne andine in Perù) produssero modeste quantità di mercurio, attraverso rudimentali procedimenti di arrostimento del cinabro, per destinarlo all’estrazione dell’oro e dell’argento.

Impiegato nel passato, come si è visto, soprattutto nei procedimenti estrattivi di metalli pregiati, il mercurio è divenuto una materia prima strategica a partire dal tardo ottocento. L’industria chimica, quella farmaceutica e quella meccanica lo utilizzarono in dimensioni rimarchevoli, fino a determinare commercializzazioni internazionali legate ai grandi interessi economici e finanziari dell’epoca. Gli impieghi nell’industria bellica, sotto forma di fulminato di mercurio, una sorta di efficace detonatore di esplosivi nelle armi, ne decretarono in alcuni periodi storici una elevata richiesta di mercato, che assumeva punte inquietanti in concomitanza di eventi bellici.

Le miniere del monte Amiata arrivarono a produrre il 50% dell’intera produzione mondiale, restando comunque le prime fornitrici per alcuni decenni, superando così i volumi produttivi di Almaden.

Nel dettaglio, gli utilizzi del mercurio, che veniva generalmente commercializzato in bombole di acciaio, erano per lo più riferibili a finalità pacifiche: apparecchiature elettriche (sotto forma di vapori di mercurio), pile a secco, manometri, termometri, barometri ed altri dispositivi di precisione. Un impiego diffuso avvenne nei processi elettrolitici chimico-industriali, oltre agli usi legati alla proprietà consolidata di formare amalgame con molti metalli, non solo oro e argento.

 

 

Nascono le miniere

La trattazione del mercurio può dar luogo attualmente solo ad un viaggio nel tempo e nella storia, essendo questo metallo ormai severamente condannato come un elemento di alta tossicità, per cui gli utilizzi sono pressoché scomparsi, o comunque assai limitati, sia nella chimica che nella strumentazione meccanica moderna. La tecnologia attuale ha sostituito il mercurio con altri componenti di maggiore e più sicura tollerabilità, anche se gli effetti tossici ed inquinanti sono da collegare non tanto al contatto col mercurio, quanto invece alle sue esalazioni e alle vaporizzazioni.

L’estrazione del cinabro e la conseguente produzione su scala industriale del mercurio ha inizio intorno alla metà del 1800, quando nelle campagne di Castellazzara viene raccolta a cielo aperto o comunque in cava di facile accesso, una quantità consistente di cinabro che consente ad alcuni pionieri di costituire una società per azioni con la finalità di produrre e commercializzare il mercurio. La società portò la denominazione "Stabilimento Mineralogico Modigliani", con sede legale a Livorno, essendo soci i fratelli Modigliani e certo Sadun della comunità ebraica di Pitigliano. Lo stabilimento metallurgico, il primo della storia mercurifera, fu localizzato nel 1846 lungo il torrente Siele ed entrò ben presto in concorrenza con le miniere di mercurio di Almaden, già attive da alcuni anni in Spagna. Ma le cose non andarono bene e subentrò, dopo il fallimento, una nuova impresa societaria, la "Società Mercurifera Sadun-Rosselli", partecipata dal banchiere livornese Emanuele Rosselli, che ne ebbe a garantire un congruo rifinanziamento.

L'entrata del villaggio minerario del Siele,come si presenta oggi

Intorno al 1870 vi fu un salto di qualità, che dette un vigoroso incremento alla produzione del mercurio, la cui richiesta nel mercato andava rapidamente aumentando. Oltre alla miniera del Siele, ove il tenore del minerale in mercurio raggiungeva livelli molto alti, nacquero in questo periodo le coltivazioni minerarie alle Solforate e al Cornacchino, località site nel comune di Castellazzara e Santa Fiora, per iniziativa di un ingegnere minerario tedesco Filippo Schwarzemberg, che ebbe anche il merito di iniziare ulteriori ricerche di giacimenti, culminate con la prospettiva dell’apertura di una miniera vicina all’abitato di Abbadia San Salvatore, con un tenore in mercurio medio, ma con una ragguardevole dimensione del giacimento. Infatti, poco tempo dopo, nel 1897, viene fondata a Livorno la "Società Anonima delle Miniere di Mercurio del Monte Amiata" identificata poi come "Monte Amiata spa", che ebbe a gestire quasi tutte le miniere del territorio, in primis quella altamente competitiva di Abbadia San Salvatore, cui si aggiunse verso la fine dell’ottocento la miniera del Morone, nelle vicinanze di Selvena. All’epoca le maestranze impiegate arrivarono a 800-1000 addetti.

Soci della Monte Amiata spa erano allora Vittorio Emanuele Rimbotti di Livorno, promotore della costituzione della società unitamente ad alcuni finanzieri e investitori tedeschi, cui si aggiunse nei primi anni del novecento un importante partner finanziario, la Banca Commerciale Italiana.

La miniera e lo stabilimento metallurgico di Abbadia, progettato dall’ing. Friedrich Amman, che ne divenne l'apprezzato primo direttore, iniziarono ad operare su grandi ritmi, destinati ulteriormente ad incrementarsi, nel 1899/1900.

La produzione complessiva di mercurio sull’Amiata arrivò a coprire il 25-30% dell’intera produzione mondiale, fino ad arrivare al 50% in determinati periodi di elevata richiesta di mercato.

Intorno al 1920, all’indomani dello sbandamento militare e politico della Germania nel primo conflitto mondiale, i dirigenti e i tecnici tedeschi dovettero rinunciare, loro malgrado, alla gestione della miniera di Abbadia, lasciando la gestione direzionale e tecnica sotto il controllo della Banca Commerciale Italiana, che rimase peraltro socio prevalente. Nel 1932, a seguito anche della grande crisi economica del 1929-30, si registrò la prima importante crisi del settore: i prezzi calarono, l’occupazione venne ridimensionata, creando problemi di natura sociale ed economica che avevano ripercussioni anche nazionali. Da qui nasce l’intervento dello Stato, che consentì, attraverso l’intervento dell’IRI, una graduale ripresa dei lavori e della produzione. Di fatto la Monte Amiata spa, partecipata in modo prevalente dall’IRI, divenne industria di Stato, il che determinò al momento anche la ripresa degli investimenti nelle miniere. Da allora però la gestione aziendale non conobbe più periodi di eccellenza: nel 1938, a seguito delle leggi razziali, vennero espulse tutte le partecipazioni riconducibili alle proprietà ebraiche. Per questo motivo anche la miniera del Siele vide un cambio massiccio di proprietà, passando dalla famiglia Rosselli ad una società controllata da un gruppo finanziario che faceva capo al conte Armenise e alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.

La metallurgia del mercurio

Da un punto di vista tecnico e produttivo, va precisato che il salto di qualità nel trattamento del minerale di base per ottenere il mercurio fu determinato dall’introduzione dei forni Cermak-Spirek, che, utilizzati dapprima nella miniera del Siele alla fine dell’ottocento, furono poi oggetto di successive modifiche e miglioramenti destinati a incrementarne il rendimento e la sicurezza del lavoro. Questa stessa tipologia di forni raggiunse il massimo perfezionamento con l’innovazione del forno a torre unitamente a ventilatori e condensatori sempre più avanzati.

Nel secondo dopoguerra furono installati i nuovi forni Gould, in cui il processo di arrostimento del minerale e la conseguente condensazione del mercurio era regolata dall’utilizzo di dispositivi meccanici rotativi e da più potenti ventilatori, tali da garantire bassi livelli di inquinamento ed una maggiore tollerabilità del lavoro. Successivamente furono introdotti nella miniera di Abbadia i forni Nesa che costituivano un ulteriore perfezionamente dei Gould, ma il loro impiego fu solo temporaneo, avvicinandosi a grandi passi la crisi del mercurio. Il metallo depurato che usciva dai forni Cermak-Spirek e Gould veniva convogliato in silos e successivamente in bombole di acciaio.

  Il plastico dell'area mineraria di Abbadia S.S.: a sinistra è visibile l'impianto metallurgico (museo minerario di Abbadia)

La commercializzazione avveniva con sistemi di trasporto che utilizzavano prima la stazione di Monte Amiata e successivamente il porto di Livorno, da dove partivano mercantili per le esportazioni, che si indirizzavano prevalentemente verso gli Stati Uniti.

Il mercurio e l’economia locale

La produzione di mercurio ha registrato nel tempo fasi alterne molto marcate, determinate da motivazioni varie che sono collegabili, negli aspetti positivi, al reperimento di nuovi o più ricche giaciture di minerale, alla maggiore richiesta nel mercato internazionale, alla quotazione dei prezzi, all’introduzione di nuove tecnologie. In termini negativi invece la produzione diminuiva o addirittura veniva abbandonata in caso di esaurimento delle giaciture, di impoverimento del tenore in termini percentuali, di calo della domanda sul mercato e quindi dei prezzi, di deludenti risultati delle nuove ricerche che avrebbero potuto garantire la continuità produttiva. Tutto questo sta a spiegare le ricorrenti movimentazioni societarie nella proprietà delle miniere, alcuni fallimenti delle società di gestione ma anche il realizzo di ingenti profitti provenienti dai periodi di andamento favorevole. Gli improvvisi ridimensionamenti di personale, l’abbandono di pozzi e gallerie, i licenziamenti non sempre motivati, erano tutti avvenimenti (frequenti a volte in maniera allarmante) che si traducevano, nel concreto, in brusche modificazioni dei ritmi di vita, nonché delle vicende dell’intera comunità dell’Amiata.

L’economia e gli aspetti sociali dei paesi della montagna (principalmente i centri minerari di Abbadia, Santa Fiora, Castellazzara, Selvena e Piancastagnaio, ma anche gli altri comuni amiatini sono stati interessati all’attività mineraria per gli effetti conseguenti e indotti, sia pure limitati, che ne derivavano), segnavano continuamente spostamenti di reddito delle famiglie, tanto da determinare una crescita in termini esponenziali di una coscienza di classe e una consapevolezza politica dei lavoratori delle miniere e di coloro che vi orbitavano intorno in termini di lavoro o di prestazione esterna (trasporti, forniture idriche, elettriche e di legname, forniture commerciali, ordinari appalti esterni, addetti alla prevenzione ecc.). L’occupazione registrò nel 1927 un valore massimo di 3300 unità lavorative, fra minatori, addetti agli impianti metallurgici ed altri generici, attestandosi mediamente sulle 2000 unità occupate.

Prima dell’avvento dell’attività estrattiva su grande scala, il territorio del monte Amiata presentava un’economia agro-silvo-pastorale estesa pressoché a tutti i comuni della montagna, con caratteristiche diverse che andavano dalla presenza di residui di feudalità, con vaste proprietà fondiarie (Cesarini-Sforza a Santa Fiora, marchesi Bourbon del Monte a Piancastagnaio, Cervini a Vivo d’Orcia) fino alla piccola proprietà fondiaria o alla mezzadria nel versante occidentale (Arcidosso, Casteldelpiano). L’arrivo delle miniere provocò una vistosa trasformazione di questo tipo di economia, determinando anche una profonda differenza fra i versanti dell’Amiata. Nel versante occidentale rimane una cultura prevalentemente silvo-pastorale con modesti indotti provenienti dall’attività mineraria, mentre nel versante sud-orientale il territorio è investito da una trasformazione sociale ed economica di ampia portata. I centri minerari di Abbadia San Salvatore, Castellazzara, Piancastagnaio e Santa Fiora registrano un netto miglioramento del tenore di vita, un incremento dei servizi civili e infrastrutturali a livello comunale, ma anche una sofferenza diffusa per le condizioni di lavoro dei minatori, che implicavano soggettive tribolazioni anche per le famiglie.

Il lavoro in miniera

Una trattazione a parte meritano le dure condizioni di lavoro dei minatori, condizioni che si sono modificate in meglio nel corso degli anni, ma che sono tuttavia da considerare nel complesso gravemente disagiate e invalidanti per quanto concerne la salute dei minatori. L’assenza di una normativa sui diritti e sulle tutele nel luogo di lavoro, non solo nell’ottocento, ma anche nei primi decenni del novecento, ha di fatto favorito orari di lavoro usuranti, fino a 12 ore continue per turno, infortuni e gravi malattie professionali. Il prezzo pagato in termini di salute dagli operai delle miniere, come apporto all’innalzamento del livello di vita civile ed economico dell’intera comunità, è da considerare sproporzionato. Frane e incidenti in galleria con morti e feriti non erano purtroppo rari fino a quando l’introduzione di tecniche di estrazione più innovative, specie nell’uso degli esplosivi, ne ha limitato la frequenza.

L'impalcatura al di sopra di un pozzo d'ingresso alle gallerie, ricostruita in miniatura nel museo di Santa Fiora.

Ricostruzione del lavoro in galleria, con un carrello alimentato ad aria compressa (museo minerario di Abbadia).

Ma le due malattie professionali caratteristiche dell’attività mineraria e metallurgica legata al mercurio erano la silicosi e l’idrargirismo, che hanno minato nel tempo l’organismo di quasi tutti i lavoratori del bacino mercurifero. La silicosi era provocata dall’inalazione delle polveri prodotta dai martelli perforatori o picconatori e non disperdibile in galleria. Esse si depositavano nei polmoni causando problemi respiratori e bronchiali, che alla lunga risultano fatali. L’idrargirismo o, in termini medici idrargirosi, era causato dall’introduzione di esalazioni e vapori di mercurio, e costituiva il grave rischio comune per gli addetti ai forni di arrostimento e condensazione. I sintomi erano allarmanti e degenerativi: tremori, depressione, insonnia, turbe della vista e dell’udito, alterazioni patologiche dello stomaco e del fegato, stomatiti, gengiviti con perdita dentaria, fino all’inevitabile decesso. Anche per questo rischio lavorativo una parziale attenuazione si è progressivamente attuata nel tempo con l’utilizzo di forni progettati soprattutto con riguardo alla tutela e alla sicurezza dei lavoratori. Gli ultimi forni utilizzati presentavano in questo senso, minori rischi di tossicità e quindi una migliore tollerabilità. Una volta chiuso il rapporto di lavoro con la miniera, per il minatore rimanevano purtroppo gravi e amari segni di invalidità che rendevano il resto della vita pesante e, spesso, disperata. Una testimonianza esemplare e severa delle condizioni in cui operavano i minatori amiatini è stata rappresentata magistralmente da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola in un prezioso saggio del 1956, pubblicato dall'editore Laterza di Bari con il titolo "I minatori della Maremma", che è rimasto una pietra miliare nella dolorosa storia dello sfruttamento del lavoro umano in Italia. 

Tutto questo incrociarsi di contraddizioni determinò il formarsi di una coscienza politica e sindacale: nascono nei primi anni del novecento i primi scioperi e le prime leghe operaie. L’azione rivendicativa registrava comunque pochi e inconsistenti successi di fronte ad un padronato che, allora, era tutt’altro che illuminato e che non concedeva spazi ad un movimento improvvisato e frazionato territorialmente. Ma, soprattutto in occasione della prima guerra mondiale del 1915-18, periodo in cui la richiesta internazionale di mercurio registrò una vera impennata, con le società minerarie che avevano necessità di incrementare la produzione puntando soprattutto ad uno sfruttamento più intensivo della mano d’opera, le risposte delle organizzazioni operaie diventavano più decise e unitarie in tutto il bacino mercurifero. La prima rivendicazione riguardò la regolamentazione dell’orario di lavoro, dei turni e il riconoscimento retributivo degli straordinari; seguirono poi conquiste sindacali in materia di sicurezza nelle gallerie e negli impianti di metallurgia (purtroppo condizionate da macchinari tecnici e operativi di scarsa efficacia), in materia di aumenti salariali, di riposi settimanali ed altro.

La miniera del Morone a Selvena, in una cartolina degli anni '50

Il pozzo del Siele.

La presenza sindacale andò consolidandosi nel tempo, con scioperi e rivendicazioni sempre più unitarie e incalzanti, come del resto imponevano le usuranti condizioni di lavoro dei minatori e degli operai metallurgici, Contemporaneamente cresceva la coscienza politica, soprattutto nelle comunità dei centri minerari. Il consenso politico ed elettorale andò attestandosi verso i partiti della sinistra, fino a registrare nella zona alte percentuali dei partiti socialisti, prima del 1921, poi del Pci e del Psi, nelle varie denominazioni o ramificazioni con le quali si presentavano alle consultazioni elettorali, sia nazionali che locali. Il ventennio fascista causò un inasprimento delle lotte sindacali e sociali, con un governo che, pur decretando un timido inizio di provvidenze sociali, favorì di fatto le proprietà minerarie. Nel 1924 va ricordata una presenza di Mussolini ad Abbadia San Salvatore, durante la quale cercò di sostenere il modello corporativo, un sistema che secondo lui avrebbe dovuto superare la lotta di classe per sostituirla con una collaborazione tra datori di lavoro e operai. Di fatto il governo fascista fa seguire provvedimenti a senso unico, come lo scioglimento di tutte le organizzazioni sindacali, surrogate da un evanescente sindacato unico fascista, il divieto di sciopero, il non intervento sui licenziamenti aziendali. Da qui il profondo sentimento antifascista, che si diffuse su tutto il territorio amiatino, in cui durante il periodo della seconda guerra mondiale, fu attiva un’intensa lotta di Resistenza contro il nazi-fascismo.

A dimostrazione della profonda coscienza libertaria della zona, va qui ricordato un episodio avvenuto il 14 luglio 1948 ad Abbadia San Salvatore, quando, a seguito dell’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI, militanti comunisti e lavoratori delle miniere iniziarono una dimostrazione popolare, che ben presto degenerò in scontri e blocchi stradali contro le forze dell’ordine. Vi furono due morti: un agente di polizia e un maresciallo dei carabinieri, oltre ovviamente a feriti e arresti. Nel Governo e nello stato maggiore delle forze armate si temé l’inizio di una rivolta di ben altre dimensioni. Abbadia fu messa in stato d’assedio con l’intervento dell’esercito: vi furono perquisizioni, chiusure di sedi, fermi di polizia, condanne penali e successivamente le società minerarie utilizzarono l’episodio per procedere a numerosi licenziamenti. A distanza di qualche tempo, la ribellione acquisì gli ovvii connotati di un fatto locale e puramente spontaneo, e solo l’esagerata paura di un colpo di stato costituì il motivo per una serie di atti repressivi.

La chiusura delle miniere

Si arriva agli anni ‘70: la crisi internazionale del mercurio, causata soprattutto dalla ormai confermata nocività del mercurio, non è più ciclica ma strutturale. Le quotazioni del mercurio si contraggono più del 50%. Non fu più possibile per le aziende mercurifere dell’Amiata, affrontare questa difficile situazione di mercato, stante la scarsissima competitività delle aziende amiatine generata dall’assenza di innovazioni tecnologiche, dalla incerta programmazione aziendale priva di congrui investimenti finanziari. A ciò si aggiunga l’intenso sfruttamento dei giacimenti cinabriferi, avvenuto negli anni passati e che portava all’impoverimento graduale dei tenori di mercurio, senza che le ricerche geologiche e minerarie, assenti o comunque gravemente esigue, potessero indicare nuovi siti di estrazione. In quegli anni solo la Monte Amiata spa, che gestiva peraltro la più importante miniera del territorio, era a partecipazione statale, mentre le altre società erano a capitale privato. Ma la crisi, che investiva allo stesso modo tutto il bacino mercurifero, con conseguenze devastanti sui livelli di occupazione, non poteva essere affrontata con interventi statali solo per i lavoratori della Monte Amiata spa, per cui i provvedimenti di carattere pubblico, che seguirono, interessarono tutta l’area mineraria dell’Amiata, provvedimenti tesi ad attenuare gli effetti conflittuali che la chiusura delle miniere comportava per l’intera economia locale. Ma l’intervento statale, messo in atto attraverso provvidenze varie come la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS), il trasferimento delle concessioni e delle società minerarie ad enti pubblici quali l’EGAM, la SMMA, la SAMIM, l’ENI, ebbe un carattere assistenziale ai massimi livelli, per cui le aspettative economiche reali naufragarono in un mare di risultati deludenti. Si arriva così nel 1977 alla chiusura di tutte le miniere, e il contemporaneo tentativo di riconversione dell’economia locale venne affrontato con obbiettivi sociali, tesi a limitare lo scontro sociale, e con interventi pubblici concertati (Stato, Regione, enti locali, sindacati), permeati tuttavia di criteri assistenzialistici spinti. Di fatto la riconversione non ebbe risultati apprezzabili: le scelte, al di là dei provvedimenti tampone temporanei e provvisori, furono caratterizzate da valutazioni alquanto discutibili: quando si prevede che un’economia montana possa puntare su aziende con attività grottesche come la "lavorazione del pesce azzurro per mangimi" o la "costruzione di strumentazioni elettriche" ignorando le vere prospettive e le vocazioni del territorio (acque, legname, geotermia) si finisce solo per dar vita a inutili investimenti finanziari destinati all’insuccesso.

La conclusione dell’epopea mineraria nel territorio del monte Amiata, in un giudizio che a distanza di quaranta anni può definirsi compiuto, fu addebitabile ad una responsabilità prioritaria delle aziende minerarie, le quali avevano accumulato nel tempo gli ingenti profitti derivanti dalla sfruttamento di una risorsa che nel passato aveva assunto addirittura un valore strategico. Nel momento in cui il mercurio perdeva quota nel mercato internazionale, queste stesse aziende non riuscirono a mantenere una competitività che avrebbe consentito una continuità produttiva, destinata comunque a venire meno nel tempo a seguito della messa al bando del mercurio per gli ormai noti caratteri di alta tossicità. Ma queste stesse società non ebbero minimamente a prendere in considerazione una chiusura delle miniere da programmare in modo graduale e con minore impatto negativo, attraverso una riconversione parziale degli stessi capitali investiti, il che avrebbe potuto attenuare gli effetti pregiudizievoli derivanti da una disoccupazione improvvisa e definitiva. Addirittura le stesse società minerarie si sono peraltro completamente disinteressate ad una operazione di bonifica e di rimodellazione ambientale dei siti minerari, che avevano formato oggetto della loro secolare attività estrattiva. L’intervento pubblico, come abbiamo visto non ha dato esiti soddisfacenti, ma solo pannicelli caldi e temporanei, per cui il territorio dell’Amiata è divenuto nel tempo un'area di alta depressione economica e sociale.

Il recupero a fini storici e ambientali

I lavori in corso di bonifica e di recupero degli immobili del villaggio minerario del Siele. Il sito minerario del Siele è oggi visitabile, come di fatto lo è quello di Abbadia.

Con una legge del 23 dicembre 2000, recante il numero 388, è stato istituito il Parco Museo delle Miniere del monte Amiata, attraverso il quale è stato reso possibile prevedere e attuare azioni volte ad assicurare il recupero, le conservazione e la valorizzazione del patrimonio ambientale, storico-culturale e tecnico-scientifico dei siti minerari dell’Amiata, d’intesa con le soprintendenze competenti e con gli enti locali. Alcuni interventi sono stati compiuti in questo senso nell'area archeomineraria di Abbadia San Salvatore, ove attualmente è possibile visitare una galleria recuperata (nei pressi del pozzo Mafalda) unitamente al museo, e nel villaggio minerario del Siele, ove i lavori di bonifica e di ripristino di un percorso in galleria, nonchè di recupero degli edifici, sono attualmente in corso, ma per buona parte già completati.

In conclusione si assiste oggi a interessanti progetti di recupero e di valorizzazione storica delle aree minerarie che nel passato hanno rappresentato il perno di un sistema economico, con le sue contraddizioni sociali, ma che ha lasciato un segno indelebile nella storia del territorio.

 

SCHEDA DELLE MINIERE (DISMESSE) DEL MONTE AMIATA

nome comune proprietà iniziale proprietà significative
Abbadia S.Salv. Abbadia San Salvatore Schwarzemberg (1) Monte Amiata S.p.A. Samim (2)
Siele Piancastagnaio          Castellazzara Sadun-Modigliani-Rosselli (3) Auletta Armenise(BNA)(4) Samim(2)
Morone Castellazzara  (fraz. Selvena) Contea di S.Fiora - Schwarzemberg (1) Monte Amiata S.p.A. Samim (2)
Solforate Castellazzara Cesarini Sforza (5) Monte Amiata. S.p.A.
Abetina Piancastagnaio Soc.An. Argus Auletta Armenise (BNA)(4)
Bagnore Santa Fiora (Bagnore)  Arcidosso (loc. Aiole) SMI (Bondi) (6) SMI (2)                       Samim (2)
Monte Labro Santa Fiora Arcidosso    Roccalbegna SMI (Bondi) (6) SMI (2)                        Samim (2)
Cornacchino Castellazzara Schwarzemberg (1) Monte Amiata S.p.A.
Cortevecchia Semproniano Ginori Lisci-Fossi (7) Monte Amiata S.p.A.
Petrineri Castiglione d'Orcia (fraz. S.Filippo) Soc. An. Miniere Cinabrifere BancaCommerciale        SMMA (2)
CerretoPiano Scansano Jesinski Auletta Armenise (BNA)(4)

Note:

1) Filippo Schwarzemberg, ingegnere e finanziere tedesco, cui subentrarono gli eredi.

2) Le sigle:  SMI=Società Mercurifera Italiana. BNA=Banca Nazionale dell'Agricoltura. SAMIM=Società Azionaria MInerario Metallurgica, a prevalente partecipazione statale. SMMA=Società Mercurifera Monte Amiata, a prevalente partecipazione statale. Entrambe queste ultime partecipazioni statali costituirono espedienti e derivazioni dell'EGAM per rilevare le concessioni minerarie e le aziende estrattive con l'assunzione di tutti i lavoratori del settore. La gestione che seguì fu tuttavia inefficiente e impotente, prodromo della chiusura definitiva.

3) Poichè la miniera del Siele fu la prima ad essere coltivata, questi tre nominativi sono da considerare i pionieri dell'industria estrattiva del mercurio, non solo sull'Amiata, ma anche in Italia. Cesare Sadun, commerciante appartenente alla comunità ebraica di Pitigliano, convinse i suoi cognati, i fratelli Modigliani, della comunità ebraica di Livorno, ad acquisire i diritti di ricerca mineraria nei territori di Castellazzara, Santa Fiora e Piancastagnaio. L'intervento finanziario di Emanuele Rosselli, banchiere di Livorno, consentì l'avvio nel 1846 della produzione del metallo.

4) Armenise è la casata del conte Giovanni Armenise che creò le sue fortune durante il regime fascista. Fu podestà di Genzano, industriale nel settore chimico e proprietario del gruppo editoriale del Giornale d'Italia e della Tribuna Illustrata, azionista maggioritario della Banca nazionale dell'Agricoltura. A lui succede negli anni '50 il nipote Giovanni Auletta Armenise.

5) Il nobile Cesarini Sforza, conte di Santa Fiora, nell'epoca del Granducato di Toscana.

6) Max Bondi titolare dell'omonima banca di Livorno e amministratore e socio dell'Ilva di Piombino. Fu protagonista della scalata alla Bastogi nel 1918 e divenne uno dei primi grandi mediatori tra finanza e industria.

7) Il marchese Ginori Lisci e discendenti, furono industriali fiorentini.

 

 

Fonti di riferimento:

Strappa Osvaldo: Storia delle miniere di mercurio del Monte Amiata, in "L'industria mineraria", Roma, 1977

Sani-Serafini: Monte Amiata. Frammenti di storia di miniere, Ed. Adver  Effigi, Arcidosso, 2007

De Castro: Storia delle miniere del Monte Amiata,1977

Segreto: Monte Amiata.Il mercurio italiano, Ed.Franco Angeli, Milano,1997

Spirek: L'industria del mercurio in Italia, 1906

Mangalaviti: Le miniere dell'Amiata, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1979

www.museominerario.it

www.minieredimercurio.it

www.tuscanminerals.com/monte_amiata.htm

www.parcoamiata.it

www.comune.santafiora.gr.it/museo/storia.doc




 

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